L'eremo di frate Francesco

«Narra la leggenda che passando in prossimità dell'Eremita nelle giornate tempestose e nelle notti scure e senza luna, si odono altissime musiche di organo e cori di molteplici frati che cantano il "Dies Irae"»
Nel 1213, Francesco d’Assisi, percorse tutta la provincia orientale di Terni, annunciando ovunque: «Il Signore vi dia Pace», operando in ogni sito prodigi e miracoli, fondando nuovi conventi e facendo nuovi proseliti.
L’Apostolo umbro, in compagnia di tre «compagni»,
lasciato il contado di Narni, dopo una breve visita ad Amelia, a detta
del Wadding (1648), raggiunse il castello di Sangemini.
Sangemini, già castaldato, ai tempi di Francesco, figurava tra i «castra» della Chiesa romana, posti nella diocesi e contado di Narni.
Era un insediamento piccolo, ma importante da un punto di vista
strategico (sulla fine del ‘300 il borgo di Sangemini contava
neppure duemila abitanti ).
Tommaso da Celano, compagno di Francesco e suo primo biografo, a
proposito della visita addotta dal santo assisiate a Sangemini nel
1213, narra: «Un giorno, il
beatissimo padre Francesco, passando per la diocesi di Narni, giunse in
un paese che si chiama Sangemini, e predicandovi il Regno di Dio,
ricevette ospitalità con tre frati da un uomo timorato e devoto
di Dio [era il conte Pietro Capitoni],
che godeva assai buona fama in quel luogo. Però la moglie
dell’ospite era tormentata da un demonio, come ben sapevano tutti
gli abitanti del territorio (...) ».
Ma lasciamo continuare il racconto al quattrocentesco frate Giacomo
Oddi, così da gustare anche la lingua umbra del ‘400:
«(...). Et molto pregato da quisto homo santo Francesco
comandò in vertù de la santa obedientia a quillo demonio
che se partisse, et mai più vi tornasse; et quillo, non potendo
contradire al suo comandamento, subito uscì de quella femena».
Continua il Celanese: «Onde avvenne, che trovandosi un’altra volta a passare pel medesimo luogo il beato Francesco (e frate Elia era con lui), quella donna, come seppe del suo arrivo, si alzò e si mise a correre per la piazza, chiamandolo perché si degnasse di parlarle. Egli non voleva, sapendo che era la donna dalla quale aveva, per virtù divina, scacciato il demonio; ma essa baciava le orme dei suoi piedi, ringraziando Dio e san Francesco suo servo, che l’aveva liberata dal potere della morte. Infine frate Elia riuscì a convincere il Santo a parlarle; ed egli da molti fu assicurato e della malattia, come s’è detto, e della guarigione».
Sempre in quei giorni il poverello di Dio, a detta delle cronache, «risuscitò un bambino di una povera vedova, che fattasi forte, riuscì ad entrare, col figlioletto morto in braccio, nella sala ove era a desinare San Francesco e il Conte. Il Santo, ammirato da tanta fede, pregò e restituì sano e vitale il figlio alla donna».
Il devotissimo conte Capitoni, incoraggiato dall'entusiasmo del popolo, a riconoscenza di quei prodigi, donò al serafico poverello un suo giardino posto a «ventiquattro canne all’incirca» dalla porta del castello («Porta Burgi» o «Porta S. Francesco»), e qui fece edificare un «locus» per Francesco ed i suoi compagni.
Successivamente, nello stesso luogo, sorgerà una monumentale chiesa con attiguo convento che, sino allo soppressione «Pepoli» (1866), ospiterà una congrua famiglia di frati Conventuali.
Nel primitivo tugurio, frate Francesco, attesta lo Iacobilli (1647), «vestì del suo sacro habito uno di essa Terra per nome Pietro, e lo condusse seco, e tenne per suo diletto discepolo».
E’ questi frate Pietro dei Bonanti da Sangemini, futuro «santo protomartire francescano».
Egli, in compagnia dei frati: Berardo da Calvi dell'Umbria, Ottone da Stroncone, Adiuto ed Accursio (anch’essi della diocesi di Narni), sarà inviato dallo stesso Francesco a convertire i «macomettani» del Marocco; e nel 1220, a Marrakesch, i cinque arditi frati, tra atroci sofferenze, moriranno martiri.
Essi, giunti a Coimbra (Portogallo) nell’autunno del 1219, ospitati nel Romitorio francescano «Dos Olivas»,
prima di partire per il Marocco, visitarono il monastero agostiniano di
S. Croce; e lì incontrarono don Ferdinando Taneira Martinez da
Lisbona, colui che mosso dal loro esempio, giurerà sui loro
resti di divenire francescano, per emularne le gesta; sarà
costui s. Antonio di Padova, e senza dubbio per i meriti dei cinque
«Santi protomartiri francescani»!
Lo stesso Francesco, sentendo raccontare la loro eroica morte, esclamò: «Ora so di avere cinque veri frati minori!».
- L'Eremita di Cesi/Portaria - (Acquerello del '600)
Ma, torniamo all'Eremita (detta: «Eremita/Romita degli Arnolfi» o «Eremita/Romita di Cesi/Portaria»).
Durante la felice permanenza in Sangemini, frate Francesco, desideroso,
come sua consuetudine, immergersi nella solitudine di qualche anfratto
vicino, venne a sapere dell'esistenza di un romitaggio benedettino
posto, narra Antonio da Orvieto (1717), «su la cima d’un aspro, e rigido Monte»,
tra i borghi di Cesi e di Portaria, edificato intorno al sec. VII-IX,
in onore dei ss. Volusiano e Procolo, vescovi di Terni e di Carsulae,
che nella pace del luogo ebbero la propria dimora.
Tramanda lo Iacobilli: «Havendo inteso, che nelle Montagne di Cesi, e di Porcaria era un Eremo asprissimo, che poi fu cognominato l'Eremo, o l'Eremita di Cesi (...); il Serafico Padre si partì dalla Terra di s. Gemini, dov'era andato a predicare; e si trasferì l'anno 1213 in detto eremo ch'era in un ameno bosco situato, conforme alla sua volontà; e l'ottenne con la selva contigua dall'Abbate di Porta Reale, padrone di esso luogo».
Francesco, narra un anonimo secentesco, «ottenuta
la picciola chiesa, lì fabricò con frasche e canne vicino
uno più picciol ricovero contro l'ingiurie del tempo (...)».
Il giullare di Dio, usando le parole dello Iacobilli, «in
quest'Eremo dimorò molti giorni in santa contemplazione; e
predicò a molti che ivi vennero ad udirlo, e visitarlo».
E fra i tanti, continua lo storico folignate Iacobilli, un giovane nobile di
Poggio Azzuano (Cesi), entusiasmato agli estremi dal persuasivo fervore
dell'apostolo umbro, «commosso
dalla santità della sua vita e dalle virtù delle sue
divine parole, lo pregò a riceverlo fra i suoi discepoli (...).
Era costui Pietro Capitoni Cesi, figlio di Angelo Cesi, signore di Cesi, di Aquitano e di Poggio Azzuano».
Pietro Cesi diverrà il beato Pietro dal Poggio, che su questo
monte, con l’aiuto di suo fratello Angelo, edificherà, nel
1230, il primo conventino in pietra.
Quassù frate Francesco, immerso nella solitudine boschiva del monte, o nascosto tra le umide rocce della spelonca (che la tradizione ha sempre chiamato «Grotta di S. Francesco»), compose l'«Exhortatio ad laudem Dei», autentico abbozzo del «Cantico di frate Sole», versi sciolti in lingua latina che il santo, «manu propria», in occasione della riconsacrazione della cappellina benedettina da lui stesso restaurata, scrisse su una tavola di legno, devotamente conservata (almeno sino al ‘500), nel sacro oratorio.
Nel 1213, frate Francesco, a detta della tradizione, si sarebbe trattenuto all’Eremita per due mesi e tre giorni. E prima di partire da quell'amatissimo luogo, presagendone gli eroici futuri, chiese che lì venisse avviata la costruzione di una chiesetta dedicata alla Vergine Annunziata, simile in dimensione e forma alla amatissima Porziuncola di Assisi.
Il poverello di Dio tornerà a temprare il suo spirito nell’amena solitudine dell’eremo degli Arnolfi.
Nel 1218, frate Francesco, dopo aver raggiunto il popolo «terennano», seguendo la «via quae vadit ad Collelunam», pervenne ancora nel borgo di Sangemini, «e frate Elia era con lui», precisa Tommaso da Celano.
Da Sangemini mosse poi alla volta dell'Eremita degli Arnolfi.
Molto probabilmente a questa visita si riferisce una preziosa ed inedita cronaca quattrocentesca: «Una fiata lassata la via polverosa, et cocente, il beato Francesco, et lu suo conpagno Pecorone [Leone],
et frate Elia, se ne erano arrampicati pe lo sentiero che l'averebbe
menati allo Loco de l'Heremita.
Dapprima de arivare se fermorno a
repusare al ombra de uno jovine elcio [tutt’ora esistente!];
lo quale tucto se repiegò in segno di devotione.
Poco doppo
arivorno nello Loco de l'Heremita, ov'erno fratel Petro; et fratel
Leonardo Arnolfo; et fratel Jacopo de val Peracchia; et fratel
Simplicio Macerinense.
Vidutolo tucti stupefacti accursero, jubilando a
abraciarlo; et poco doppo entrorno nello di loro humile recovero dove
stectero per longo spatio a discorrere.
A li Vesperi entrorno tucti ne
la Chiesia; dove orarono con molta compunzione innanzi all'Imagine
della Beatissima Vergene Maria; et pigliata la licentia et benedictione
dallo beato Francesco se ne congedarono.
Et da quella hora in poi, il
beatissimo Francesco stecte molto assiduo in quella nocte in oratione
però che molto gli piaceva.
Dopo taluni jorni, il beato
Francesco; et fratel Pecorone; et fratel Elia se levorno da quello
sagro Loco pe' menasse allo Loco de Santo Urbano».
Nel 1220-21, dopo la missione in Terrasanta, frate Francesco giunse ancora nel romitaggio di Cesi/Portaria.
L’ennesima visita sarebbe convalidata dalla presenza, tra le reliquie della chiesa, di un «mantellus», «da lui riportato d'oltremare, e che da' frati ivi dimoranti, si conserva e si mostra», scrive Antonio da Orvieto.
E forse proprio in quei giorni di permanenza, dopo una notte insonne
causata dall’acuirsi della sua malattia, l’indomani,
malgrado una sostenuta riluttanza, «Francesco fu condotto da Pietro ad una fonte presso Acquasparta».
Frate Francesco bevve quell’acqua prodigiosa e trovò giovamento (da allora la fonte venne chiamata «Fonte di S. Francesco»);
ed alla moltitudine di gente accorsa, espresse il desiderio di voler
lì edificare un romitaggio con annesso lazzaretto.
La richiesta fu accordata.
In quel luogo sorgerà il convento «S. Francesco d'Assisi» di Acquasparta.
Dopo la devastante cauterizzazione subìta a Fontecolombo di
Rieti (1225), il giullare di Dio, segnato dalle sacre stimmate,
visitò ancora il convento di Cesi/Portaria.
Tramanda il Sabatier (1894): «Durante i mesi invernali tra il 1225 ed il 1226, [Francesco], debilitato e quasi consunto, lo ritroviamo negli eremi più fuori mano della regione [umbra]».
Frate Francesco, accompagnato dai quattro «fratelli infermieri»
(i frati: Angelo, Bernardo, Leone e Rufino), a dorso di un asinello,
partito da Rieti, attraverso Piediluco e Terni, giunse a Stroncone.
Da Stroncone a Sant’Urbano di Narni.
Da Sant’Urbano, il poverello assisiate mosse alla volta del romitaggio di Cesi/Portaria.
All'Eremita, i devoti frati qui dimoranti, constatato il pietoso stato di salute del loro «padre»,
si preoccuparono di offrirgli un più comodo giaciglio:
costruirono accanto alla chiesetta, una capanna di frasche e loto,
fornita di un lettaccio di tavole.
Rara eccezione questo letto,
poiché, in genere, la terra, la roccia servivano a Francesco per
riposare.
In quei giorni, durante una medicazione alle sacre stimmate, un fraticello che stava assistendo il santo, raccolse un poco di quel prezioso sangue, da allora conservato e successivamente custodito, precisa Antonio da Orvieto, in una «picciola ampolla, o vasetto posto dentro un Tabbernacolino d'Argento».
Il «locus» francescano di Cesi/Portaria, oltre ad aver avuto il gaudio di essere lustrato dalla delicatissima immagine dell’apostolo umbro dei primi anni della sua vita religiosa, ebbe il sommo onore di essere profumato dalla sagoma cenciosa ed emaciata del santo stimmatizzato, divenuto immagine perfetta di Cristo!
Sino al febbraio-marzo 1226, frate Francesco dimorò
all'Eremita, poi si trasferì a Siena per ulteriori e
vani tentativi di cura; da Siena, nel maggio-giugno 1226, fu condotto
ad Assisi.
Dopo pochi mesi frate Francesco morì.
Era il 3 ottobre 1226.
Dopo la morte del santo, molti dei suoi più intimi compagni, delusi dalla distorta evoluzione dell’Ordine, che proponeva una interpretazione più elastica della Regola in riferimento all’obbligo della povertà assoluta, si rifugiarono all’eremo di Cesi/Portaria.
Si ritirò su questo monte frate Leone, compagno inseparabile e confessore dell’apostolo umbro; narra un’anonima cronaca (sec. XV): «Onde essendo frate Leone nello heremitorio della Heremita, conciosiacosaché per multo tempo se affatigasse in iegiunii, in vigilie et orationi, et ecco, quando esso orava, li apparve sancto Francesco tucto resplendente et iocundo (...)».
Documentate, inoltre, sono le presenze del b. Egidio, carissimo compagno dell’assisiate, e del b. Corrado da Offida.
Il convento fu sempre importantissimo centro della più stretta e rigorosa spiritualità francescana, mantenendo inalterata nel tempo, quell’atmosfera mistico-leggendaria tipica dei «Fioretti»; dal 1213 al 1867, nella solitudine di questo luogo, sottolineano le fonti, «sempre rinverdì l’albero della religione francescana».
Il 23 maggio 1291, papa Nicolò IV concesse indulgenza a tutti coloro che avessero visitato la chiesetta dell'Annunziata dell'Eremita in determinate feste religiose.
Nel ‘300, il conventino accolse i beati: Giovanni della Valle, Gentile da Spoleto e Paoluccio Trinci da Foligno; quest’ultimo, ottenute le dovute concessioni, qui attuò la sua grande riforma detta degli «Osservanti»: «vivere la purità della Regola, non osservata nell’Ordine, con quella povertà che la fondò il glorioso Padre [Francesco]».
Nel 1385, frate Bartolomeo da Pisa, ricordando il cenobio di Cesi/Portaria nella sua opera «De Conformitate», lo descrive come segue: «il devotissimo luogo dell’Eremita, voluto da S. Francesco, continuamente ha ospitato frati, osservanti la Regola alla lettera».
Nel ‘400, il convento fu lustrato, tra l’altro, dalle presenze dei santi: Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano e Bernardino da Siena; quest’ultimo, ampliando il fabbricato, conferì alla struttura l’aspetto attuale.
Nel periodo di permanenza nel romitorio di Cesi, il santo senese fece più volte visita ai paesi vicini.
Documentate sono le sue prediche tenute a Sangemini e a Cesi.
A Sangemini erano venerati il pulpito di pietra usato da Bernardino per i suoi sermoni, e - narra Antonio da Orvieto -: «la
Casa dove si trattenne il Santo tutto il corso della sua Santa
Predicazione, qual casa fu poi per riverenza donata da’ Padroni
a’ Religiosi della Romita, acciocché se ne servissero per
Ospizio, quando andavano a far Cerca in detta Terra di S. Gemini».
Le genti delle Terre Arnolfe e dei vicini contadi impararono presto ad amare gli umili frati della Romita; narra una trecentesca cronaca: «Nello jorno de la Sanctissima Annontiata usano portarsi ne lo Sagro Loco de l’Heremita, processioni di Fedeli, et de Cesi, et de Porteria, et de Macerino, et de Sancto Gemine, et de li Castelli, e Rocchette, de le Terre Arnolfe tutte. Et li Fedeli, s’encontrono intra loro; et coi Frati menori de sancto Francescio, fanno l’Orationi sino a quasi lusco».
Sempre nel ‘400, all’Eremita di Cesi visse il b. Francesco da Pavia.
Scrive frate Giacomo Oddi: «Demorando
quisto beato Francisco al sopra dicto loco de la Heremita, fo veduto
dalli frati più volte portare ad mangiare ad un lupo lì
al cancello fore dall’orto, et stare co’ lui molto
domesticamente, come se fosse uno frate», e - informa il
Bazzocchini - di giungere persino a comandargli «di far scorta a
un asinello che andava al Convento carico di elemosine per i frati».
Ancora in quegli anni, il venerando luogo accolse il b. Francesco
da Brescia ed il giovane novizio frate Giacomo delle Corone da Portaria.
Di quest’ultimo si tramanda che fosse intento pregare dinanzi
all’immagine della Vergine posta nella chiesa, quando la stessa
gli suggerì la recita di una nuova corona: al cenobio di Cesi
nacque, così, la «Corona francescana», che tuttora pende dal cordiglio di tutti i frati!
Nel 1532, l’Eremita di Cesi passò ai «Riformati», francescani «infiammati di Spirito Santo», decisi a rivivere la Regola ed il Testamento di Francesco «ad litteram et sine glossa» («alla lettera e senza commento»).
In questo incantevole luogo, riporta il Wadding, «vanno
a vivere molti frati spirituali, con altre due ore di orazione mentale,
l’ufficio divino recitato con tutta devozione, l’ufficio
della B. Vergine, quello dei morti, i sette salmi penitenziali e dopo
Compieta l’ufficio della Benedetta. Digiuno strettissimo non solo
nei giorni comandati dalla Chiesa, ma anche le quaresime della
Benedetta, della Madonna, di S. Michele.
La loro vita sia un continuo
digiuno: solamente la domenica e il giovedì mangino qualcosa di
cotto; gli altri giorni solo pane, frutta, erbe crude. Mortifichino la
carne: dormano in terra o su nude tavole, portano cilizi e cerchi di
ferro, facciano la disciplina a sangue, stiano sempre ritirati nel
convento».
Nel ‘500, il sacro monte fu santificato dalle presenze dei beati Giovanni Spagnolo e Ambrogio da Milano, protagonisti di memorabili prodigi.
Uno scrittore vissuto nella seconda metà del ‘600, parlando del cenobio, lo descrive come segue: «Spira
in vero tutto questo sacro luogo una devozione celeste à chi lo
visita, e io che vi sono più volte andato, non per devozione,
ò per spirito, ma per affari meramente temporali, non me ne son
partito, che tocco internamente dà spirito di compunzione
devota, non habbi invidiata l’angelica vita, che ivi da quelli
buoni Religiosi si gode».
Nel ‘600, fra le mura di quest’eremo, vissero, tra gli
altri, i venerabili: frate Pietro da Montefranco, frate Antonio
d’Amelia, frate Cornelio da Cascia e frate Antonio da Nocera; di
quest’ultimo si narra: «Onde
per lo spazio di due anni continovi, che resse Antonio [da Nocera]
quella santa Casa [l'Eremita], pochi giorni passavano che non si
vedessero più coppie di Religiosi o stratarsi in terra per
essere calpestati, o carichi di varij stromenti di mortificazione, o
dirsi colpa dè propri difetti, benché minimi, l’un
all’altro (...); sembrava il Convento abitazione d’Angeli
piuttosto che d’Uomini normali».
Toccante la cronaca che racconta come un «Angelo del Signore», in una buia notte invernale seicentesca, accorse all'Eremita portando agli affamati fraticelli, un cesto di buonissimo pane.
Nel ‘700, il convento venne dichiarato «Ritiro»: luogo designato all’osservanza più stretta della Regola di Francesco.
Le principali regole del ritiro erano: «da due a tre ore di meditazione, da sette ad otto ore di coro ogni giorno; sette quaresime all’anno; silenzio rigoroso, povertà estrema; penitenze che si sarebbero dette inosservabili».
Il solitario romitaggio di Cesi/Portaria continuava ad essere focolaio ardente della più alta spiritualità francescana.
In questo secolo vissero sul sacro monte, il b. Leopoldo da
Gaiche ed i venerabili: padre Pietro da Bagnaia, padre Domenico da
Orvieto, padre Antonio da Torri in Sabina e frate Giovan Battista da
Spoleto.
Di quest’ultimo, meglio conosciuto come «fra’ Jaco», la tradizione narra cose straordinarie: «come
stendendo il suo mantello sopra animali malati facesse loro acquistare
perfetta guarigione; come si moltiplicasse il pane fra le sue mani
quando lo distribuiva ai poveri, e questo si racconta pure del vino,
dell’olio, ecc., ecc.».
Dopo la soppressione francese, il sacro luogo di Cesi/Portaria fu lustrato dalla presenza del giovane Francesco Possenti (futuro «Passionista» s. Gabriele dell’Addolorata), qui giunto per parlare con suo zio frate (padre Fedele Carrarini da Terni), ed essere consigliato sulla definitiva scelta di vita religiosa.
Presto, i religiosi dell'Eremita vennero investiti da una successiva tempesta demolitrice: la soppressione italica.
Il 17 gennaio 1867, un drappello di autorità governative e
demaniali salì l’erta del monte con l’ordine di
evacuare il convento.
Con maniere degne della più raffinata inciviltà,
l’ordine venne eseguito: i frati, senza condizioni, vennero
cacciati dal sacro monte (nel santuario francescano dimoravano allora
ben trenta frati ! La «famiglia»
propria dell’Eremita, che contava dodici religiosi, aveva da
alcuni anni ospitato i dispersi confratelli del soppresso convento di
S. Maria dell’Oro di Terni).
La soppressione italica, quindi, costrinse la mite «famiglia francescana» a lasciare definitivamente il romitorio che, divenuto proprietà demaniale, fu venduto ad una facoltosa famiglia di Cesi (vane furono le ripetute richieste di riscatto avanzate, tra l'altro, dai padri: Geminiano da Sangemini e Fedele Carrarini da Terni!).
Dopo essere stato dimora di coloni, il convento cadde nel più desolante degli abbandoni; e quando sembrava ormai destinato ad una inesorabile scomparsa, nel 1991, divenne dimora del provvidenziale frate Bernardino Greco.
- Frate Bernardino Greco -
«Fra' Bernardino», incuriosito dalla lettura della settecentesca cronaca di Antonio da Orvieto, partito dal convento di Montesanto di Todi, raggiunse il mistico squallore dell’Eremita.
Narra lo stesso frate: «Il
28 febbraio 1991, dopo tanto girovagare per la montagna, tra autentiche
gabbie di rovi e spine, scorsi finalmente una parte dei ruderi!
Tra il
brusìo di un refrigerante venticello ed il canto armonioso di
qualche uccello, mi parve di sentire la flebile voce delle pietre:
“Vieni, rimettici al nostro posto, facci rivivere!”.
Son tornato ripetutamente in marzo ed aprile ed ogni volta udivo più forte la “chiamata delle pietre”.
Decisi così di tuffarmi in questa avventura e con ebbra gioia m’accorsi di non essere solo».
Ricordo ancora, non senza emozione, il giorno 7 aprile 1991, quando,
in una delle frequenti visite ai ruderi del convento, incontrai frate
Bernardino.
Era sotto le fronde del centenario cedro.
Intrecciammo subito un fitto dialogo sugli eroici remoti di
quell’austero romitorio, culla e baluardo, per oltre sei secoli,
della più alta spiritualità francescana, ed allora
ridotto a squallido, seppur profumatissimo, cumulo di macerie,
destinato alla scomparsa.
Ad un certo punto, con parole chiare, espressive e ferme, frate
Bernardino centrò il mio cuore pervadendolo di sconfinata
speranza: «La
Romita risorgerà, te lo assicuro! Non senti anche tu il pianto
delle pietre che chiedono di essere riposte nei loro siti?».
- L'Eremita di Cesi/Portaria - (prima e dopo il restauro, rispettivamente 1990 e 2010)
Così è stato; un autentico miracolo!
Ma chi riteneva impossibile ripulire le «orme» del poverello di Assisi e viverne i passi?
Ed ecco, fra le rinate mura del convento, reso violentemente scevro dei suoi «figli», emergere palpiti vivi, sensibili, che risvegliano sentimenti, passioni, ideali.
In questo paesaggio sereno, silente, quasi mistico, nell’intimo
profondo di ognuno son tornati a tumultuare pii richiami; e tra la
mente ed il cuore, aspra contesa fanno gli svelati ricordi ripalpitanti
tra i secoli trascorsi ed il poetico presente.
Le «orme» di
frate Francesco, rispolverate e lucidate, son divenute, stan qui divenendo
cammino di un lievitante numero di persone che, strette intorno ad un
ligneo crocifisso, anelano vivificare il proprio animo di una
dimensione trascendente, erroneamente creduta ... irreale!
***
IL COMPLESSO CONVENTUALE DELL'EREMITA
* Chiesa della SS.ma Annunziata e Cappellina di S. Caterina d’Alessandria
- L'Eremita di Cesi/Portaria -
Chiesa della SS.ma Annunziata (al centro), cappellina di S. Caterina d'Alessandria (a sinistra)
ed oratorio di S. Bernardino da Siena (a destra)
La duecentesca chiesa fu per oltre sei secoli punto di riferimento
spirituale dei devoti delle «Terre Arnolfe», e venne
edificata su suggerimento di S. Francesco, in ricordo della chiesetta
tanto amata: la «Porziuncola di Assisi».
Entrambe le costruzioni sono costituite da un’unica navata
coperta da volta a botte a sesto leggermente rialzato. La parte
terminale presenta due aperture simmetriche, altre chiuse su un lato e
un gradino verso la zona del coro.
Sull’altare maggiore era situato un «Crocifisso» di rilievo con un
quadro per parte rappresentanti la «Santissima Annunziata».
Al lato
destro dell’altare, in una grande nicchia, era un armadietto
ligneo custodente varie preziosissime reliquie. La reliquia più
venerata, oltre al sangue di Francesco contenuto in una ampollina, era
il mantello del santo.
Annessi alla chiesetta sono: la sacrestia e due oratori; di fronte alla chiesa
è un rozzo portico; sulla destra si trova l’«oratorio di
S. Bernardino da Siena».
Di fronte al portico è una piccola cappella detta di «S.
Caterina d'Alessandria», a pianta quadrata, con volta a crociera; le pareti laterali
della stessa erano scompartite in otto quadri recanti la storia della
martire bionda.
* Cappellina benedettina (o di S. Francesco) e corpo conventuale
- L'Eremita di Cesi/Portaria -
“Cappellina benedettina o di S. Francesco”
Un angusto chiostro fatto a tetto da due sole parti ed avente
finestre aperte invece di archi, separa il corpo chiesastico da quello
conventuale; in fondo al chiostro è la piccola «Cappella
benedettina o di S. Francesco» (sec. VII-IX), la stessa che
restaurò l’assisiate nel 1213. All’interno è
un austero altare a ceppo.
Parallelo alla chiesa è il «Convento propriamente detto» (sec.
XV), diviso in due piani: al piano terra si trovano «le necessarie» officine,
oltre ad un capiente refettorio, dove i frati consumavano
gli umilissimi pasti; a sinistra dell’ingresso è la «stanza
del fuoco comune» corredata di un enorme camino.
Da qui,
due rampe di scale, adducono al piano superiore dove, lungo un
corridoio centrale, si affacciano le «celle dei minoriti», oltre alla «stanza della biblioteca», alla stanza della «biancaria» e all'infermeria.
Perpendicolari, all’incirca, all’asse longitudinale del
convento, si sviluppano due ramificazioni costruttive, che individuano
il «chiostro del grande cedro», esse sono: il
«Noviziato di S. Bernardino» (sec. XV) e gli «ambienti
dell'infermeria» (secc. XIV-XV).
Sotto al «Noviziato di S. Bernardino», dirimpetto alla
facciata della chiesetta, accanto alla porta-ingresso del sacro
Romitaggio, si trova la foresteria, riadattata laddove erano il refettorio, la cucina e la dispensa del primo nucleo conventuale,
edificato nel 1230 da Andrea Cesi, fratello del b. Pietro.
* La spelonca di frate Francesco
- L'Eremita di Cesi/Portaria -
“Spelonca di S. Francesco”
Un sentiero incantevole conduce sul fianco del monte verso il fosso
di Portaria (o dell’Eremita) dove si apre la «Grotta o spelonca di S.
Francesco».
Non è molto profondo, appare a forma di ferro di
cavallo e gira intorno ad un masso fiancheggiandone la parte frontale
con le due aperture.
Toccante nel suo interno la visione di una piccola
croce greca incisa su una pietra rossastra; la tradizione vuole che
l’orante Francesco qui fosse solito poggiare la sua fronte.
* La cisterna del Duca Cesi
- L'Eremita di Cesi/Portaria -
"Cisterna del Duca Cesi"
Al centro del vasto prato antistante al complesso monastico,
è la cosiddetta «Cisterna del Duca Cesi»: un pittoresco
pozzo di travertino dalla inusuale forma ovale, posto sotto una grande
tettoia, fatto costruire nel Seicento dai duchi Cesi di Acquasparta a
beneficio dei fraticelli dell’Eremita.
Accanto alla magnifica
cisterna sono i resti della «lavandaria», costituita da grandi vasche in
terracotta.
***
Completamente perduta è la decorazione originaria.
Antonio da Orvieto ricorda in chiesa un: «Crocifisso
di rilievo d’intaglio, tutto imbrunito, con un quadro per parte
rappresentanti la SS. Annonziata»; ed una «miracolosissima
immagine di Maria sempre Vergine, dipinta in tavola, col suo santissimo
Figliolo in braccio, e con molti misteri d’intorno, opera molto
antica ma d'artefice incerto».
Nella seconda metà dell’800, fra le altre opere - il complesso monastico risultava largamente affrescato - , era ancora visibile una tavola a tempera raffigurante la "Passione di Cristo in dodici storie" (opera accurata di scuola senese del sec. XV).

- L'Eremita di Cesi/Portaria, cappella di S. Francesco -
"Crocifissione" (sec. XIV)
(Sopra, l'originale tratto da una foto della fine dell'800;
sotto, il rifacimento dell'affresco operato dall'artista ternano Roldano Lupi)
Nella «cappella di S. Francesco» era una bella "Crocifissione" ad affresco della fine del sec. XIV; nella «cappella di S. Caterina d'Alessandria» alcune "Storie della Santa", assegnate da Van Marle ad un seguace di Benozzo Gozzoli.
Liberamente tratto da:
Paolo Rossi
L’EREMITA DEGLI ARNOLFI
V. Ursini Ed. Catanzaro, 1996.
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Di seguito un filmato sull'attuale realtà del luogo.
° L'EREMITA DI FRATE FRANCESCO