I primi cinque "veri frati" di Francesco
Berardo da Calvi, Ottone da Stroncone, Pietro da Sangemini, Accursio da Aguzzo e Adiuto da Narni (tutti «Castelli» dell'Umbria meridionale), convertiti nel 1213 dalla predicazione di frate Francesco a Terni e dintorni, sono i «cinque protomartiri francescani»; la loro cruenta vicenda è narrata da una cronaca anonima, opera di un testimone oculare dei fatti.
Della loro vita precedente il martirio, si è a conoscenza di poco o nulla ma, attraverso questa cronaca è possibile ricostruire il loro viaggio sulla via del Marocco, dal mandato loro affidato da Francesco, alla Porziuncola, nel capitolo del 1219, sino al dono finale della vita per Cristo e il suo Vangelo.
* Seguire Gesù Cristo
La vita di s. Francesco è testimonianza di una totale adesione a Dio, di cui ha sperimentato l'amore paterno; a questo amore l’apostolo umbro si abbandona con gioia, fiducia e speranza e vuole darne testimonianza; desidera che tutti conoscano il Padre misericordioso e il suo amore incarnatosi in Gesù; desidera portare a tutti le «fragranti parole del Signore»; identificando la via dell'amore a Dio e ai fratelli con la via della Croce; intende offrire tutto se stesso, fino al martirio, per il Vangelo.
Spinto da questo ardente amore, aveva tentalo di recarsi in Oriente nel 1211 «a predicare la fede cristiana e la penitenza ai Saraceni»,
ma il suo tentativo era fallito, perché i venti avevano tatto
naufragare la nave su cui viaggiava contro le coste dell'attuale
Dalmazia.
Il desiderio del martirio aveva continuato ad animare il santo di
Assisi, perciò egli si era messo in viaggio per predicare il
Vangelo di Cristo al sultano del Marocco, Mohamed ben Nasser, indicato
dalle cronache con il nome di «Miramolino», lettura volgarizzata della parola araba «Emir el numerin», che significa «sultano», cioè «capo dei credenti».
Francesco era già arrivato in Spagna quando si ammalò, e fu costretto a ritornare ad Assisi: «L'uomo
di Dio capì allora, che la sua vita era ancora necessaria ai
suoi figli e, benché ritenesse la morte un guadagno,
tornò indietro a pascere le pecore affidate alle sue cure».
Dopo aver organizzato l'Ordine in «Province» (1217), il
poverello di Assisi provvide a mandare frati minori in tutte le
principali nazioni d'Europa.
Nel Capitolo generale celebrato nella Pentecoste del 1219, fu
fatto il resoconto delle spedizioni decise due anni prima; i frutti
erano stati abbondanti, ma non erano mancate le difficoltà.
Accadeva infatti che «molti
vedendo l'umile e santo comportamento dei frati stabilitisi nelle loro
terre e ascoltando le loro parole (...) vennero da essi e presero con
umile fervore l’abito dell'Ordine»; ma poteva anche
accadere il contrario: «In certe regioni erano accolti, ma senza
permettere loro di costruire abitazioni, altrove venivano cacciati per
paura che fossero degli eretici (...). A motivo di tali ostilità
i frati furono costretti a fuggire da diverse nazioni. Così
angosciati, afflitti, non di rado spogliati delle vesti e battuti da
briganti, tornavano da Francesco con grande amarezza».
Non sorprende, quindi, che i frati riferirono delle sofferenze di
alcuni fratelli ma, soprattutto, raccontarono il martirio di frate
Eletto, ucciso dai saraceni in Egitto e morto con la Regola in mano.
Il Capitolo decise le nuove partenze per la Francia, la Germania, l'Ungheria e il Marocco; Francesco affidò la missione in Africa a: Berardo de' Leopardi da Calvi dell'Umbria, Pietro de' Bonanti da Sangemini, Ottone de' Petricchi da Stroncone, Accursio Vacuzio di Aguzzo, Adiuto e Vitale della diocesi di Narni.
“Frate Berardo de' Leopardi da Calvi e frate Accursio Vacuzio di Aguzzo”
“Frate Ottone de' Petricchi da Stroncone e frate Adiuto narnese”
“Frate Pietro de' Bonanti da Sangemini”
* Ascolto e conversione
I sei giovani frati erano stati convertiti proprio dalla predicazione di frate Francesco, quando, nel 1213, su richiesta del vescovo di Narni, Ugolino, aveva percorso i territori del ternano, testimoniando Cristo e il suo Vangelo.
Il santo andava e veniva spesso per la «via di Terni», e durante la «battuta apostolica lungo la piana del Nera»,
richiestagli dal vescovo Ugolino, aveva inizialmente sostato a
Collescipoli, dove è testimoniato il miracolo di una
risurrezione, per salire poi fino all'avito borgo di Stroncone.
Qui giunto, si era fermato a pregare davanti a una immagine della Madonna posta in una edicola fuori del «castello», quindi aveva iniziato a predicare.
Le sue parole avevano toccato il cuore degli stronconesi a tal punto
che gli stessi donarono quel luogo al poverello, perché vi
facesse sorgere un conventino.
Tra quanti accorsero a vedere ed ascoltare il santo di Dio «che appariva a tutti come un uomo di un altro mondo»,
era un giovane canonico, Ottone de' Petricchi, il quale, subito, decise
di seguirlo sulla via della povertà ed umiltà
evangeliche, vestendo il sacco stretto in vita dall’«umile capestro».
Poco o nulla si conosce di questo giovane e della sua vita precedente l’incontro con Francesco; certo, però, che seguì da subito il poverello nella peregrinazione attraverso i «castelli» del ternano.
Lasciata Stroncone, Francesco sostò per alcuni giorni a S.
Urbano, nell'eremo abbarbicato ad un dirupo boscoso, poco distante da
Narni, tappa successiva del suo viaggio apostolico.
In questo luogo il santo fece esperienza concreta della tenerezza di Dio.
Tormentato da una grave malattia, desiderò ascoltare un po' di
musica come sollievo alla sofferenza, ed ecco il suono angelico di una
cetra attraversare la notte; era una melodia dolcissima, ora vicina ora
lontana; il canto più soave che Francesco avesse mai udito.
Lo sconosciuto citaredo era un angelo musicante: con le sue note
donò sollievo al corpo malato del poverello e ne
rinfrancò lo spirito, perché «il Signore che consola gli afflitti non lo aveva lasciato senza consolazione».
Dai dintorni molti pellegrini salivano all'eremo, per vedere ed ascoltare l’apostolo umbro.
Forse proprio allo Speco avvenne l'incontro decisivo con Francesco di
altri tre dei giovani scelti poi dal santo per la missione in Marocco:
Accursio che proveniva dal vicino castello di Aguzzo, Adiuto e Vitale
entrambi abitanti nella diocesi di Narni.
Lasciato lo Speco, Francesco passò per Calvi dell'Umbria, dove avvenne l'incontro con Berardo de' Leopardi. Questi lo ospitò nella propria casa e gli donò un terreno su cui poi sorse un conventino, quindi lo seguì divenendo «perfetto sacerdote e gran predicatore nella lingua arabica».
Raggiunta Narni, dove lo attendeva il vescovo Ugolino, Francesco
«vi sostò per alcuni giorni per predicare la Parola di
Dio» ed operando alcuni miracoli; si spostò poi a
Sangemini dove ancora una volta operò prodigi e conversioni.
A Sangemini si aggiunse alla crescente schiera dei suoi «figli», frate
Pietro de' Bonanti che «divenne un dotto e buon sacerdote»,
e meritò che s. Francesco «l'amasse ed elegesse a grandi
imprese insieme a fratello Berardo».
* In cammino accanto a Gesù Cristo
A Ottone, Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Vitale, il poverello
d'Assisi affidò, alla Porziuncola, la missione in Marocco.
Solo Vitale, il più anziano, ammalatosi appena giunto in Spagna, non potrà portare a termine l'incarico.
Gli altri cinque tennero fede alla missione affidata loro, a prezzo della vita: sono i «protomartiri francescani».
I sei frati avevano svolto la loro opera nella Provincia toscana, ed
erano tornati in Umbria proprio per partecipare al Capitolo del 26
maggio 1219.
E’ toccante il colloquio che la Cronaca attribuisce a Francesco e ai sei al momento della partenza.
Il santo li avvia alla missione dicendo: «Figlioli miei carissimi
[...] state tra voi uniti d'un sol cuore; e se nulla avete che vi renda
abili a quest'opera tanto difficile, mettete in Dio la vostra speranza,
che egli vi sarà guida e fortezza in ogni vostro bisogno. La
prontezza della vostra obbedienza in prendere questa missione di tante
fatiche e pericoli, mi consola ma il dividermi che fo da voi, mi
strazia il cuore di gran cordoglio, perché vi amo quantunque
essendo questo mio amore da Dio e per Iddio mi e più caro di
servire la sua gloria da me distaccandovi che alla mia tenerezza
soddisfare».
I sei si inginocchiano ai piedi del poverello, e Vitale, rispondendo a nome di tutti, chiede a frate Francesco che preghi per loro e li benedica; il santo, con le lacrime agli occhi, esaudisce la nobilissima richiesta, e invoca su di loro «la benedizione di Dio Padre che li regga e fortifichi e consoli in ogni tribolazione».
Subito i sei frati si misero in cammino, «seco portando per
tutto viatico il solo breviario e la grazia di Gesù
Cristo».
Iniziarono un lungo e faticoso viaggio di risalita della penisola fino
al Moncenisio, poi, attraverso la Francia, fino al passo di
Roncisvalle, per arrivare finalmente al Regno di Aragona.
Qui giunti, Vitale, superiore della spedizione, si ammalò
gravemente e, nonostante le resistenze dei compagni, restii a
proseguire senza di lui, li spinse a riprendere subito il viaggio sotto
la guida di Berardo.
* Una testimonianza che illumina
«Trapassarono il rimanente della Spagna da per tutto e a tutti predicando con la parola e con l’esempio la riformazione dei costumi e l’amore della croce».
Raggiunta la città di Coimbra in Portogallo, si fermarono presso il romitorio di Sant'Antonio abate - noto come romitorio Olivares, in quanto immerso tra gli olivi -, che la regina Urraca aveva donato ai frati minori.
I frati, come era prescritto loro dalla Regola, elemosinavano di porta in porta, e, nella vicina città di Coimbra, spesso bussavano al ricco monastero di S. Croce, dove, in quel tempo era «ospitaliere» o «foresteraio», aveva cioè il compito di accogliere i viandanti, il canonico agostiniano Fernando Martinez da Lisbona, divenuto poi Antonio, e che oggi veneriamo come s. Antonio di Padova.
Come riferisce il «Breviario dei Canonici regolari portoghesi», un giorno i cinque missionari diretti in Marocco, avevano bussato alla porta del monastero di S. Croce, chiedendo ospitalità, e Fernando li aveva accolti.
Il giovane viveva in quel momento una situazione particolare, di grande sofferenza.
Entrato a 15 anni tra i canonici agostiniani a Lisbona, era passato poi
a Coimbra, all'abbazia di S. Croce, uno dei centri di cultura
più importanti del regno; qui si dedicava alla preghiera, allo
studio e all'apostolato.
Purtroppo il priore, Giovanni, era una «creatura» del re e accettava
supinamente le pesanti ingerenze politiche della corte nella vita del
monastero.
Accusato di aver dilapidato i beni dell'abbazia, di aver dato esempio
di vita dissoluta e di aver fatto scadere la disciplina dei religiosi,
era stato scomunicato.
Il priore, però, aveva continuato ad occupare la sua carica e a
celebrare la santa Messa, sfidando il papa e il vescovo, e incorrendo
in altre sanzioni.
La comunità si era divisa in due fazioni: da una parte i
seguaci del superiore deposto, dall'altra i fedeli al pontefice e al vescovo di Coimbra.
Questa situazione era per il giovane Fernando una prova aspra che lo
aveva spinto a tuffarsi sempre più nella preghiera e nel lavoro
intellettuale; l'incontro con i cinque missionari francescani fu
provvidenziale per le sue scelte future.
Quei giovani vestiti di ruvido saio, «contenti di una tonaca
rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache», che
chiedevano con umiltà e ringraziavano dicendo «Il Signore
ti dia pace», colpirono profondamente il giovane Fernando.
Avvertiva nella loro povertà materiale una indefinibile
grandezza spirituale; seppe che venivano dall'Italia, ed erano seguaci
di quel Francesco d'Assisi di cui conosceva la fama di santità.
Avrà sicuramente parlato con loro; non sappiamo cosa si dissero,
ma si può ritenere per certo che la vista di quegli ospiti
così lieti nella povertà e desiderosi del martirio,
aumentasse il suo desiderio di abbracciare un modo di vita
integralmente conforme agli insegnamenti del Vangelo, cosa che
farà vestendo il saio francescano.
* Testimoni lungo il cammino
Durante la loro breve permanenza ad Olivares, la regina Urraca aveva
avuto del colloqui con i frati e, vista la loro profonda fede, li aveva
pregati di rivolgersi a Dio, per sapere quando avrebbe lasciato questa
vita.
Dopo diversi rifiuti, i giovani, vinti dalla sua devozione, esaudirono
la sua richiesta. Illuminati da Dio, predissero il proprio martirio e
dissero alla regina che lei sarebbe morta poco tempo dopo il ritorno
delle loro reliquie a Coimbra.
Partiti dalla città, Ottone e i suoi compagni si diressero
verso Alenquer, dove furono accolti da Sancha, sorella di re Alfonso
II, donna devotissima, la quale, nel 1217, aveva donato ai frati Minori
la cappella di S. Caterina, accanto alla quale aveva fatto
costruire, per loro, un piccolo romitorio.
La principessa, colpita da quell'ardente desiderio di martirio, era molto preoccupata per la loro incolumità.
Pensava, a ragione, che presentandosi con il logoro abito della
predicazione, essi avrebbero immediatamente suscitato le ire non solo
dei Mori ma anche di quanti commerciavano con loro; li esortò,
quindi, a cambiarsi di abito fornendo lei stessa gli indumenti
più opportuni per il resto del viaggio attraverso un territorio
potenzialmente ostile.
Indossati questi abiti «borghesi», gli apostoli umbri partirono alla
volta della ricca città di Siviglia, allora capitale dei re
Mori, in quanto parte della Spagna era ancora sotto il dominio degli
arabi.
A Siviglia, per otto giorni, furono ospiti di un ricco mercante
cristiano; rivestito il saio, essi trascorsero questo breve periodo
nella preghiera continua, affinché il Signore «desse loro
tanto di forza e di sapienza da compiere degnamente l'opera che, per
sua gloria e salute delle anime, si erano addossati».
Quando però rivelarono al loro ospite l'intenzione di predicare
il Vangelo di Cristo e la penitenza agli infedeli, questi cercò
in ogni modo di farli desistere dall'impresa, perché
«assai più che la dilatazione del Vangelo amava i vantaggi
e le speranze de’ suoi commerci»; sorpresi e sdegnati,
Berardo e i suoi compagni abbandonarono la sua casa e, dando ascolto
solo al proprio zelo, si recarono immediatamente alla principale
moschea e si misero a predicare il Vangelo.
Naturalmente furono presi per pazzi e malmenati «giacché
in abito strano e lingua forestiera eransi usati entrare nella moschea
e disturbare la maomettana orazione»; ma quelli, senza scomporsi,
si recarono al palazzo del re e chiesero di parlargli facendosi
annunciare come ambasciatori del Re dei re, assoluto padrone e Signore
di tutto il mondo!
Il sultano li ascoltò di malavoglia, e quando li udì
parlare di varie questioni inerenti la vera fede, comandò che
fossero imprigionati in una torre.
I cinque non si persero d’animo, anzi, saliti in cima alla torre
stessa, con quanta voce avevano, seguitarono a predicare tra lo stupore
degli abitanti della città; per impedire che continuassero,
furono gettati nei sotterranei.
Sembra che in seguito alla loro pervicacia nella predicazione ritenuta blasfema, il sultano avrebbe voluto farli decapitare subito, con gioia somma dei prigionieri che vedevano così realizzato il desiderio di offrire la propria vita per Cristo, ma un principe moro gli aveva fatto notare che una sentenza simile sarebbe stata non solo sommaria ma anche troppo rigorosa, pertanto lo aveva invitato alla clemenza.
Convinto da quelle parole, qualche giorno dopo, il sultano li fece chiamare in tribunale e, saputo che desideravano passare in Africa, anziché rimandarli in Italia li fece imbarcare alla volta del Marocco «sopra una nave che tragittava in Africa parecchi cristiani malcontenti».
* Perseveranza nella fede
I cinque frati si imbarcarono con don Pedro, infante di Portogallo, il quale, in seguito a dissapori con il fratello Alfonso II, si era messo al servizio del sultano, pur conservando la fede cattolica.
Giunti a Marrakech, don Pedro li accolse nella propria casa con
grande disponibilità, ma li invitò alla cautela,
poiché temeva per la loro salute, già compromessa dal
lungo viaggio, dalle privazioni e, soprattutto, dalla prigionia a
Siviglia.
«Don Pedro si intenerì fino alle lacrime in vedendo come
gli avesse sì smunti e disfatti la dura prigionia
imperocchéi loro volti erano sì pallidi e macri che la
pelle pareva alle ossa appiccata e l'occhiaia profonda e le spalle
curvate sotto al peso della mortificazione e della croce del loro
maestro Gesù Cristo».
Nonostante le raccomandazioni di don Pedro, i cinque frati
cominciarono la loro opera di conversione sin dal primo giorno, e
presero a predicare in ogni angolo della città.
Berardo che conosceva l'arabo, «anzi molto addentro era nella
cognizione di quella lingua», si mise a predicare sopra un carro
mentre passava il sultano che si recava a visitare le tombe dei suoi
antenati; questi, informatosi su di lui e sui suoi compagni, sia pure
adirato per le loro parole, prendendoli per pazzi, si contentò
di cacciarli fuori dalla città con l'ordine che fossero
rimandati in Spagna, nelle terre dei cristiani.
Don Pedro si rallegrò di questa decisione che salvava loro la
vita, e tentò di inviarli a Ceuta, da dove salpavano le navi per
la Spagna, ma quelli rientrarono invece in città e tornarono a
predicare sulla pubblica piazza tra lo stupore generale per tanto
ardire e fermezza di propositi, poiché avevano già
sperimentato le percosse e gli stenti della prigione e tuttavia erano
tornati sui propri passi per annunciare ancora una volta Cristo e il suo Vangelo.
Visto che avevano disubbidito ai suoi ordini e tradito la sua clemenza,
il sultano li fece arrestare e gettare in una fossa, con l'ordine di
lasciarli lì a morire di fame e di sete.
Berardo e i suoi restarono nella prigione per tre settimane; in quei giorni si verificarono in città «penuria d'acqua e forte pestilenza e mortalità» o forse, come scrive l'anonimo testimone dei fatti, autore del loro martirologio, «una lunga, infuocala bufera».
Questi fenomeni vennero attribuiti alla loro prigionìa, di conseguenza il popolo ne chiese e ottenne la liberazione; oppure, stando all'anonimo cronista, fu un consigliere dello stesso sultano a sollecitarne la scarcerazione, interpretando la persistente tempesta come una punizione del cielo proprio contro i frati, blasfemi verso la loro religione.
Tirati fuori dal pozzo Ottone, Berardo, Pietro, Accursio e Adiuto
furono trovati in condizioni migliori di quando vi erano stati buttati.
Stupìto da questi fatti, il sultano ordinò per la seconda
volta che fossero consegnati ai cristiani e fatti ripartire per la
Spagna, ma ancora una volta essi sfuggirono ad ogni controllo e
tornarono a predicare per vie e piazze, al che don Pedro, temendo che
il loro eccessivo zelo pregiudicasse anche i cristiani del suo seguito,
li fece ricondurre alla propria residenza, ordinando di tenerli sotto
stretta sorveglianza.
Mentre accadevano questi fatti in città, alcune tribù dell'interno del Marocco si ribellarono al sultano, il quale inviò contro di loro truppe miste composte anche di portoghesi al comando dello stesso don Pedro; questi decise di portare con sé i cinque frati, per salvarli da qualunque rappresaglia durante la propria assenza; essi lo seguirono di buon grado, essendo desiderosi di proseguire l'opera missionaria all'interno della regione.
Le truppe del sultano e di don Pedro ebbero la meglio sui ribelli, e
ben presto intrapresero il viaggio di ritorno; nel rientro a Marrakech,
in una lunga marcia attraverso il deserto, venne a mancare l'acqua per
tre giorni e «molti dei soldati si morivano divorati dalla
sete».
Berardo, rispondendo alle preghiere dei compagni, invocò Dio,
prese una vanga e scavò una fossa dalla quale scaturì
acqua fresca sufficiente non solo a dissetare l'esercito in marcia, ma
anche a riempire otri e vasi d'ogni tipo per il resto del cammino.
Durante il viaggio di ritorno, i cinque ebbero anche la meglio in
dispute di natura teologica con un saggio iman arabo, che faceva parte
della spedizione e che sparì addirittura dal Marocco non potendo
reggere all'umiliazione subìta.
Rientrati in città, Berardo e compagni ripresero a predicare nonostante i precedenti divieti, suscitando nuovamente le ire del sultano, il quale, risentito anche per la storia dell’iman, ordinò ad un suo ufficiale, o forse si trattava di un principe, di nome Abozaida, di farli morire tra i tormenti.
* Accanto a Gesù, povero e crocifisso
Abozaida conosce i frati e ha assistito al miracolo della sorgente
scaturita dal deserto, perciò, sperando di convincerli a
desistere dalla predicazione e poter salvar loro la vita, si limita a
farli imprigionare.
Nonostante i carcerieri li spoglino, li leghino e li frustino a sangue,
quelli restano fermi nelle loro posizioni; allora Abozaida vuole che
siano portati alla sua presenza e comincia ad interrogarli
personalmente sulla loro provenienza e sul motivo della loro venuta tra
un popolo ostile ai cristiani.
Per nulla intimoriti, i giovani dichiarano di essere giunti sin là con il permesso «del fratello maggiore Francesco» a sua volta impegnato a cercare il bene di ogni uomo e aggiungono: «Siamo venuti per predicarvi la via della verità: benché voi non lo crediate, vi amiamo di cuore, per grazia di Dio».
Incuriosito, Abozaida chiede quale sia questa via della verità, e Ottone gli risponde: «Che crediate in un solo Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, e crediate che il Figlio si è fatto uomo e alla fine è stato crocifisso per la salvezza di tutti. Coloro che non credono in ciò, saranno senza scampo condannati ai tormenti del fuoco eterno».
Questa risposta non suscita ancora la rabbia di Abozaida, anzi ne
solletica il sarcasmo e, quasi a irridere Ottone e i suoi compagni, gli
chiede dove ha appreso tali notizie.
Ancora una volta il giovane frate risponde con la salda fermezza della
fede: «Le ho apprese dalla testimonianza di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe, e di tutti i patriarchi e i profeti, e dello stesso Signore
nostro Gesù Cristo: è Lui la Via, e chi cammina fuori di
Lui va per la via sbagliata; è Lui la Verità, e senza di
Lui tutto è inganno; è Lui la Vita e senza di Lui non
c’è che la morte senza fine».
Questa risposta suona come una bestemmia alle orecchie di Abozaida, il quale, furioso per le parole di condanna proferite da Ottone in difesa della vera fede, ordina che i giovani siano separati l’uno dall’altro e consegnati ai carnefici, perché li flagellino nuovamente.
La cronaca racconta che dopo essere stati flagellati per la seconda volta, Berardo e i suoi compagni sono trascinati sopra pezzi di vetro e cocci di vasi rotti, e che sulle loro piaghe vengono versati sale e aceto con olio bollente.
Quella notte di tormento, per Berardo e i suoi compagni fu faticosa
e lunga; così anche per i carnefici che, sul far dell'alba, si
assopiscono brevemente.
In questo stato di torpore, le guardie vedono scendere sui loro
prigionieri «una luce immensa e divina, che belli di sovrumana
bellezza e incoronati di vittoria pareva rapirseli al cielo, tale che
li credettero scampati dalle loro mani, ma entrati nel carcere si
cessarono da quel sospetto, trovatili assorti in estasi di devotissima
preghiera».
Dopo quell'ultima notte in prigione, incatenati e seminudi, i cinque eroi vengono condotti alla presenza del sultano, il quale, stupìto e allo stesso tempo ammirato della loro fede capace di resistere a ogni supplizio, cerca di convertirli alla propria religione, promettendo a tutti onori, ricchezze e piaceri.
Ancora una volta fu Berardo a parlare a nome di tutti.
Egli, sputando in terra in segno di disprezzo, disse al sultano: «Ti arretra o Satana, e cessa dal tentare i servi del
Signore!».
Questa frase gli causò un forte ceffone da parte dello stesso
«Miramolino», ma Berardo non si scompose, anzi, «memore del
consiglio di Cristo», porse prontamente l'altra guancia.
Vedendo che continuavano imperterriti ad esaltare la fede in Gesù Cristo, il sultano tenta di irretirli con un'ultima offerta, quella di cinque giovani donne da prendere come mogli, per entrare tra i dignitari di corte ed aver salva la vita; al nuovo rifiuto dei giovani, il sultano si infuria a tal punto che li decapita personalmente: è il 16 gennaio 1220.
* Il sangue dei martiri: seme fecondissimo
Il martirologio narra che nel momento in cui le loro anime
spiccarono il volo per il cielo, apparvero in Alenquer alla loro
benefattrice, Sancha, la quale stava pregando nella sua stanza; la
principessa in ricordo dell'avvenimento, trasformò poi quella
camera in oratorio.
I corpi dei santi martiri furono gettati con le loro teste mozzate, fuori del recinto del palazzo reale di Marrakech.
La folla se ne impadronì, e tra urla e oltraggi li
trascinò per le vie della città, infine li espose sopra
un letamaio, perché fossero divorati da cani e uccelli.
Un improvviso temporale mise in fuga la gente e diede ai cristiani
il modo di raccogliere i resti dei martiri e trasportarli in casa di
don Pedro.
Questi fece costruire due casse d'argento di diversa grandezza: nella
più piccola depose le teste, nella più grande i corpi
degli uccisi.
Quando ritornò in Portogallo, portò con sé le
reliquie dei cinque francescani, che furono portate a Coimbra.
Qui, essendo troppo angusta la cappella del romitorio di Olivares,
furono deposte nella chiesa di S. Croce, dove sono ancora conservate.
Tutto il Portogallo fu colpito e commosso da questa vicenda; più
di tutti ne fu colpito Fernando Martinez. «Li aveva conosciuti di
persona pochi mesi innanzi: quando si inginocchiò sulla loro
tomba, sentì che più nulla avrebbe inceppato la sua
risoluzione: anche lui doveva partire verso le terre dei mussulmani e
morirvi martire. Forse intendeva immolarsi per riparare le colpe
commesse dal suo priore traviato, riottenere da Dio giorni migliori per
i confratelli tribolati di Santa Croce. Per realizzare il suo sogno
comprese che la via più sicura era di farsi francescano».
Alla notizia del martirio dei suoi cinque «figli», frate Francesco esclamò: «Ora posso dire che ho veramente cinque fratelli minori».
Molti miracoli furono attribuiti da subito all'intercessione potente
dei cinque martiri, mentre pene e sofferenze colpirono chi aveva fatto
scempio dei loro corpi: al sultano si paralizzò il braccio con
cui aveva infierito sui frati, e tutto il suo regno fu colpito da
morìa del bestiame, alluvioni e carestia.
Di contro, semplicemente accostandosi alle reliquie dei martiri, si
verificarono guarigioni prodigiose di ciechi e paralitici, e furono
scacciati demoni. Ma «la gemma più preziosa» che la
loro cruenta testimonianza donò all'Ordine serafico, fu Fernando
Martinez divenuto frate Antonio.
Quei giovani che erano stati affascinati dalla vita di s. Francesco non tornarono più nella loro terra, perché l'amore a Cristo, sull'esempio di s. Francesco, li aveva spinti a dare la vita per lui.
Accursio, Adiuto, Berardo. Ottone e Pietro, Protomartiri Francescani, furono canonizzati nel 1481, dal frate minore Francesco della Rovere, divenuto papa con il nome di Sisto IV.
La famiglia francescana celebra la loro festa, ogni anno, il 16 di gennaio, giorno del loro «dies natalis».
* La testimonianza dei cinque protomartiri francescani nella sapienza di frate Antonio di Padova
“Frate Antonio di Padova”
I primi frati Minori erano detti «Penitenti della città di Assisi»; S. Antonio li descrive così: «Sono semplici come le colombe. Il luogo dove dimorano e il letto stesso sul quale dormono è ruvido e povero. Non offendono alcuno, anzi perdonano chi li offende. Non vivono di rapina, ma distribuiscono le loro cose. Confortano e sostengono con la parola della predicazione quelli che sono stati loro affidati e partecipano con gioia agli altri la grazia che è stata loro data. (…) Fatti tutto a tutti, promuovono tanto la salvezza degli estranei quanto quella dei vicini: amano tutti nel cuore di Gesù Cristo. (…) Non si difendono con le unghie della vendetta, ma con le ali dell'umiltà e della pazienza. (…) Ripieni di buona volontà, nutrono con il massimo scrupolo “due gemelli”, cioè l'amore di Dio e del prossimo».
Questa descrizione ben si addice a Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto che, abbandonata ogni ricchezza sull’esempio di frate Francesco, hanno donato la vita per amore di Dio e dei fratelli, in assoluta obbedienza al mandato ricevuto.
La povertà e l'obbedienza sono indicate da Antonio come unica via alla vera libertà: «Sentieri della rettitudine sono quelli della povertà e dell'obbedienza: è per questi che ti conduce Cristo col suo esempio, in essi non c'è alcuna tortuosità, ma tutto è diritto e chiaro, e pur essendo così stretti, il cammino non è intralciato. Invece la via del mondo è larga e spaziosa ma per chi vi cammina come ubriaco, essa non è mai abbastanza larga per quanto larga sia (…) invece la povertà e l’obbedienza proprio per il fatto che sono strette danno la libertà: perché la povertà rende ricchi e l'obbedienza liberi. E colui che corre dietro a Gesù in questi sentieri non trova l'inciampo della ricchezza e della propria volontà».
Questa libertà del cuore ha permesso ai protomartiri francescani di aprirsi con gioia e fiducia al progetto di Dio, aderendo totalmente a lui e riconoscendolo come unico bene.
Così scrive s. Antonio: «la mente dell'uomo finché si trova davanti a Dio, è come un giardino di delizie (…) e si convince che nulla di buono può avere da se stessa, in se stessa e per se stessa, ma attribuisce tutto a lui, che è tutto il bene, il sommo bene, e dal quale, come dal centro, tutte le linee della grazia si dipartono, giungendo direttamente all'estrema circonferenza».
Missionari di Cristo, Berardo e i suoi compagni hanno operato in
modo totalmente pacifico e in piena consonanza di parola e vita,
secondo il dettato di Francesco d’Assisi: «Tutti i frati
predichino con le opere».
Essi hanno lasciato che lo Spirito Santo li animasse, infatti, spiega
s. Antonio, «chi è pieno di Spirito Santo parla diverse
lingue».
Le diverse lingue sono le varie testimonianze che possiamo dare a
Cristo, come l'umilia, la povertà, la pazienza e
l’obbedienza: e parliamo queste «lingue» quando mostriamo agli
altri queste virtù praticate in noi stessi.
La lingua è viva quando parlano le opere.
Conformati a Cristo nella povertà radicale, nell'umiltà, nell'obbedienza e nell'amore al Padre ed ai fratelli, i protomartiri francescani sono come i gigli del campo di cui parla il Signore e ne possiedono il candore e il profumo. «Essi sono detti gigli del campo. Nel campo sono indicate due cose, la sodezza della santità e la perfezione della carità. Il campo è il mondo nel quale mantenersi fiore è tanto difficile quanto meritorio (…) riuscire a farlo e un grande risultato».
Ottone e i suoi fratelli scelsero dunque di fiorire «in modo eroico nel campo del mondo anziché in un giardino o nel deserto»; operai del Vangelo, essi conservarono «la duplice grazia del fiore, vale a dire la bellezza della vita santa e il profumo della buona fama» seguendo Cristo povero e crocifisso.
Si può affermare, parafrasando Antonio, che ognuno di questi
giovani testimoni della fede si è chiesto, alzando gli occhi a
Gesù, l'autore della nostra salvezza, inchiodato alla croce:
«Perché anche io non soffro con lui? Se lui è
davvero la mia vita, e sicuramente lo è, come posso trattenermi
ancora?
Come mai non sono preparato, com’erano Pietro e Tommaso, ad
andare in carcere e ad affrontare la morte insieme con lui?».
Berardo, Pietro, Ottone, Accursio e Adiuto sentirono, dunque, l'urgenza di seguire il loro Signore sulla sua stessa via, fino al dono della propria vita come risposta all'amore senza riserve di Gesù Cristo.
Frate Antonio, dottore evangelico, così spiega le ragioni profonde che dovrebbero spingere ogni uomo a seguire Gesù nella propria via: «Nella creazione, quando tu non esistevi, ha dato te a te stesso; nella redenzione, quando esistevi nel male, ha dato se stesso a te, perché tu fossi nel bene, e quando ha dato se stesso a te, ha anche restituito te a te stesso. Dato dunque e restituito, tu devi te stesso a lui, e ti devi due volte, e ti devi totalmente. (…) Infatti con tutto se stesso ha comperato tutto te stesso, per essere lui solo a possedere tutto te stesso. (…) Ama dunque con tutto te stesso, e non con una sola parte di te».
In questo modo amarono i cinque fraticelli umbri, i quali, nel loro
cammino verso il martirio, non solo lasciarono tutto, lasciarono anche
se stessi.
Chiarisce infatti frate Antonio: «Il Signore non dice: “Voi
che avete lasciato tutto”, ma: “Voi che mi avete
seguito”: ciò che è proprio degli apostoli e dei
perfetti. Sono molti quelli che lasciano tutto, ma che tuttavia non
seguono Cristo, perché, per così dire, trattengono se
stessi. (…) Chi segue un altro nella via, non guarda a se
stesso, ma all'altro che ha costituito guida del suo cammino. Lasciare
se stesso significa non confidare in sé in nessun caso,
ritenersi inutile anche quando si è fatto tutto ciò che
è stato comandato, disprezzare se stesso, non anteporsi a
nessuno nel proprio cuore, (…) umiliarsi profondamente in ogni
occasione e abbandonarsi totalmente a Dio».
Saldi nella fede, i protomartiri francescani hanno vinto anche la paura più radicata nell'uomo, quella della morte, come riconosce lo stesso frate Antonio: «Nessuno mai vorrebbe morire, senso che è talmente radicato nella natura umana che neanche la vecchiaia riesce ad eliminarlo. Anche Gesù, del resto, disse: “Passi da me questo calice”. Ma per quanto grande sia l'avversione alla morte, essa viene vinta dalla forza dell'amore: se non ci fosse l'avversione alla morte o questa fosse debole e leggera, non sarebbe così grande la gloria del martirio».
La fede rinsaldò Berardo e i suoi compagni anche nell'obbedienza al mandato ricevuto da frate Francesco, poiché, ribadisce il dottore evangelico, «l'obbedienza perfetta (…) non deve discutere su ciò che viene comandato o perché viene comandato, ma deve solo sforzarsi di eseguire fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superiore. (…) Chi vuol essere perfetto obbediente deve spogliarsi di tre cose: del suo modo di vedere, della sua volontà e del suo corpo (…) con questa morte l'obbediente glorifica il Signore qui in terra, e quindi in cielo sarà glorificato dal Signore che è benedetto nei secoli».
E Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto sono nella gloria del Signore, perché «hanno cercato il regno di Dio con la fede, con la speranza, con la carità. Cercare questo regno vuol dire realizzare pienamente con le opere la giustizia del regno di Dio (…) di cui si legge: "Le porte di Gerusalemme saranno ricostruite di zaffiro e smeraldo”. (…) Lo smeraldo, che è tanto verde da superare il verde di tutte le erbe (…) simboleggia i martiri i quali, con il loro sangue, copiosamente versato aspersero nell'orto della Chiesa le anime piantatevi dal lavoro degli apostoli, perché perdurassero nel fresco verde della fede. Dunque con lo zaffiro degli apostoli e con lo smeraldo dei martiri, furono edificate le porte della Chiesa militante, affinché per mezzo di essi fosse visibile ed agevole l'ingresso nel regno di Dio».
La testimonianza dei protomartiri francescani, rivisitata alla luce degli scritti di s. Antonio, conferma che è possibile vivere pienamente il Vangelo solo nella costante imitazione di Cristo, umile, obbediente, povero e crocifisso, perché, spiega ancora il dottore evangelico, «Cristo ebbe una duplice eredità: una da parte della Madre, cioè la fatica e il dolore; l'altra da parte del Padre, e cioè il gaudio e il riposo. Per il fatto che noi siamo suoi coeredi, dobbiamo ricercare anche noi questa duplice eredità, ma sbagliamo se vogliamo avere la seconda senza la prima. Il Signore ha fondato la seconda sulla prima proprio perché non avessimo quella pretesa. Procuriamo dunque di venire in possesso della prima eredità che Gesù Cristo ci ha lasciato, per meritare di arrivare alla seconda».
Questa fu l'eredità desiderata e accolta da Berardo, Ottone, Adiuto, Pietro e Accursio: dare la vita per amore, rendere il contraccambio al loro Signore Gesù Cristo e Dio glielo concesse.
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Per quanti desiderino il testo integrale relativo alla vicenda dei
cinque santi protomartiri francescani: P. Rossi, Francescani e Islam -
I primi cinque martiri
(Il martirio dei cinque frati minori in
Marocco); Ed. ITEA, Arezzo 2001, pp. 120 (ingentilito da miniature e
dal rifacimento «amanuense» della Cronaca anonima del sec. XIII),
richiedere a Redazione.