Francesco e la poesia

 

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Che Francesco d'Assisi sia stato poeta non è da dubitare, e lo mettono in evidenza quanti parlano anche oggi di lui.
Nonostante ciò, quando lo si afferma, anche oggi si ha una specie di timore, perché si teme di diminuire così la forza e i motivi della sua santità.
Eppure, l'assisiate fu poeta sempre; la poesia fu tra le componenti non ultime della sua santità.

Il suo primo biografo, frate Tommaso da Celano, convinto dai criteri dell'epoca che la letizia - di cui poi lo si additerà come campione - non sia una specifica di santità, sembra quasi che gliela addebiti come nota negativa, e ne parla così: «Era per tutti oggetto di meraviglia e si sforzava di precedere i suoi coetanei nella pompa della vanagloria, nei giuochi, nelle curiosità, nelle facezie e motti inutili, nelle canzoni, nei vestiti eleganti: infatti era ricchissimo - è evidente che qui stiamo riportando la descrizione dei tempi della sua prima giovinezza - non avaro, ma prodigo (...); tuttavia era uomo che agiva con molta umanità, molto abile ed affabile, anche se il suo modo di agire poteva finire nella vanità» (I Cel., 2).

Poi, nella Vita Seconda (II Cel., 7), quasi come un suo ripensamento, descrive il suo andare cantando per le strade di Assisi, con in mano il bastone del comando, quindi confessa ai compagni, con alta poesia giullaresca, di essersi innamorato della più bella donna del mondo.

Quindi cambiato genere di vita, partito da Assisi vestito di stracci, canta in provenzale le lodi di Dio e incappa in alcuni ladroni, che lo scambiano con un giullare e lo gettano in una forra di neve (vd. I Cel., 16).
Ma soprattutto Francesco esplose come poeta quando a S. Damiano scrisse e, forse meglio, dettò, nella sua cecità, il Cantico delle creature, che apre la poesia volgare italiana; anzi - dice Giovanni Papini - «La letteratura italiana mette fuori la prima gemma col canto di San Francesco» (G. Papini, La poesia religiosa italiana in La scala di Giacobbe, pp. 189-190).

E il papa Giovanni Paolo II afferma nella bolla in cui proclama s. Francesco Patrono dell'ecologia: «S. Francesco (...) ebbe un alto sentimento di tutte le opere del Creatore e quasi supremamente ispirato compose quel bellissimo cantico delle Creature, attraverso le quali, in particolare frate sole e sorella luna e le stelle, diede all'onnipotente e bon Signore, la dovuta lode, gloria, onore e ogni benedizione» (6 aprile 1980).

Francesco sentì la poesia, forse come pochi altri, in funzione di apostolato di pace e di grazia; per questo domandò e raccomandò ai suoi frati di iniziare e terminare ogni loro predicazione con laude e cantici spirituali, per questo mandò i suoi frati a cantare il suo Cantico, a cui aggiunse la strofa sul perdono, davanti al vescovo di Assisi e al podestà, che erano fra loro in lotta.
E come evocatrice di serenità l'intese nel momento della sua morte, in cui aggiunse l'altra strofa «per sorella morte corporale» (II Cel., 217).

Dopo Francesco, dovremmo anche ricordare tutti i francescani che si dettero, chi più chi meno, lungo i secoli, alla poesia: magari liturgica o didascalica, a cominciare da Jacopone da Todi, per finire con i nostri giorni.

E poeta è senz'altro l'autore degli Actus e il loro traduttore che chiamò Fioretti di san Francesco, che sono ripieni di poesia quasi ad ogni pagina.
Proseguendo nello spirito del Cantico, essi diventano una vera e piena «sinfonia francescana (...) un grande Cantico a Dio per messere frate Francesco, e i suoi compagni e tutte le creature» (A. Vicinelli, Gli scritti di San Francesco e I Fioretti, Milano 1958, p. 257).

In quelle pagine, tutto il francescanesimo è un cantico ed ogni francescano è un cantore o una nota musicale: nel poema di cui Francesco è protagonista o nella sinfonia di cui Francesco è il leit-motiv o la nota tenuta.
C'è chi li ha paragonati alla Vita Nuova di Dante, per quel loro genere storico-lirico; e forse non è stata esagerazione.

Fermiamoci soltanto su alcuni motivi: quello di «sorella morte» sarà inteso e ripetuto, più o meno fedelmente e in sintonia col santo, dai vari poeti.
Anche il Cantico potrebbe sembrare un'eco della concezione medievale che tutto «vede sub specie mortis»; ma in esso, la morte non è più terribile: è diventata sorella, e invita e conduce alla gioia del cielo.

«Francesco la dice "sorella", Dante la dirà "gentile", per merito di Beatrice (Vita Nuova, XXIII), il Petrarca la farà "bella" per Laura (Trionfo della morte), il Leopardi "pietosa", come una soave creatura nel cui "virgineo seno" è dolce addormentarsi (Amore e Morte) e il Pascoli la vedrà dolce come una "madre" che viene pian piano a guardare dolce i figli con la lampada che poi forse illuminerà il mistero della vita» (Vicinelli, cit., p. 249).

E potremmo continuare chissà per quanto su questa tematica.
Ma preferiamo, per ora, fermarci qui, promettendoVi di ritornare in un prossimo futuro su questo argomento, per ampliarlo.